SUPERARE IL RANCORE

Rinunciare alla vendetta e al rancore è un’opportunità o un sacrificio inutile?

Rielaboro un pensiero che scrissi oltre due anni fa e ripropongo l’interrogativo sul valore di un tale atteggiamento e sulle sue conseguenze, non solo in funzione dell’offesa eventualmente subita.

La riflessione fatta qualche tempo fa si rifaceva all’insegnamento evangelico riassunto nell’espressione “porgere l’altra guancia”. Non intendevo seguirlo alla lettera allora e non intendo farlo adesso, anche perché un approfondimento richiederebbe ben altro spazio. Il mio è piuttosto un invito a non lasciarsi condizionare dal desiderio sterile e inutile della rivalsa.

Non suggerisco nemmeno di subire passivamente un torto o un’ingiustizia; credo semmai nella possibilità di scegliere consapevolmente di interrompere la catena dell’improbabile vendetta, affermando con equilibrio (e con fermezza) la propria dignità e il proprio valore, senza cedere all’illusione distruttiva rappresentata dall’odio.

Anche in molte tradizioni filosofiche e culturali si trovano esempi di percorsi pensati per spezzare il ciclo della vendetta. Il pensiero stoico, ad esempio, invitava a considerare l’offesa come qualcosa che non intacca la nostra essenza più profonda, ma solo la percezione che ne abbiamo. Allo stesso modo, alcune pratiche comunitarie del mondo antico miravano a ristabilire l’armonia sociale non attraverso la punizione, ma tramite il riconoscimento del torto e la possibilità di ricostruire legami di fiducia.

Rinunciare alla vendetta e al risentimento può essere, ancora oggi, un modo per smuovere la coscienza di chi ha intenzioni ostili, aiutandolo a capire che l’odio e le altre forme di avversione colpiscono anzitutto chi le nutre. Trattenersi da reazioni indotte dal rancore è un atto di coraggio e lucidità, e mai un segno di resa o di debolezza.

Ciò, ovviamente, richiede volontà straordinaria, forza interiore e profonda consapevolezza.

Sono ben conscio che la realtà odierna spesso ostacola tale proposito: il nostro tempo è segnato da divisioni e conflitti, e parole come comunanza, riconciliazione e perdono rischiano di suonare ingenue, talvolta addirittura scambiate per debolezza e facilmente ignorate.

La domanda che si impone è se chi riceve un gesto simile avrà mai la sensibilità morale per comprenderlo o se invece lo interpreterà come un segno di resa, rafforzando così la propria posizione ostile.

Eppure, nonostante i dubbi che inevitabilmente si sovrappongono, continuo a credere che questa sia la via giusta. Non perché sia facile o sempre apprezzata, ma perché è l’unica che rompe il ciclo della ripicca e apre, anche se in modo fragile, alla riconciliazione e a un approccio più consapevole alle sfide della vita. In questa convinzione, difficile ma necessaria, vedo la strada che provo a percorrere… non senza affanni.