QUELLA PENNA EVITA LA PIAGA

Anche ieri sera ho provato a tornare sui miei passi. Ho acceso la televisione con la speranza, forse ingenua, di ritrovare un’informazione capace di sorprendere in positivo. Ho seguito qualche TG, qualche talk show, e purtroppo ho sprecato tempo per l’ennesima volta. Stupido io, che continuo a credere che, nonostante tutto, un individuo possa ancora cercare il proprio riscatto morale; che un giornalista, prima di essere ingranaggio di un sistema, possa decidere di affrontare la propria coscienza e sfilare la penna dalle mani della peggiore ipocrisia per tornare a fare ciò che una professione tanto delicata e importante richiede.


E invece, ancora una volta, ho assistito a un copione già visto: una narrazione accomodante, omologata, ripetitiva. Non solo sulla guerra in Ucraina o sul massacro in Medio Oriente (dove ormai è evidente la faziosità, la selettività e la manipolazione nel racconto dei fatti)  ma anche su tutto ciò che riguarda la politica nazionale e internazionale, le tensioni sociali, le crisi economiche, gli scandali istituzionali. Ogni tema viene filtrato attraverso una lente che seleziona, distorce, addolcisce o esaspera in base alla convenienza del momento e alla linea editoriale di riferimento.

Il risultato è un racconto artefatto, dove le verità scomode vengono silenziate o minimizzate, mentre ciò che serve a rafforzare una certa visione del mondo viene amplificato fino all’indigestione. Un’informazione che smette di informare e inizia a suggerire cosa pensare, cosa sentire, a chi credere e a chi no. Giornalismo ridotto a veicolo di conferme, non di domande. 

Il giornalismo nasce come strumento di libertà e coscienza critica. Il suo compito dovrebbe essere quello di raccontare la realtà, anche quando questa è scomoda, difficile da accettare o apertamente osteggiata dai poteri dominanti. “Giornalismo è stampare ciò che qualcuno non vuole che si stampi. Tutto il resto è pubbliche relazioni.” Questa è l’essenza di una professione che non dovrebbe servire, ma osservare, interrogare, smascherare.

Chi esercita questo mestiere ha tra le mani uno strumento di enorme influenza. Con il giornalismo, un uomo ha una potenza quasi illimitata per fare del bene o del male.” La responsabilità, dunque, è grande: sta al giornalista scegliere se mettere la propria voce al servizio della collettività o degli interessi di pochi. È una questione etica prima che professionale.

Raccontare il reale non significa assecondarlo né addolcirlo. Significa, piuttosto, avere il coraggio di entrare là dove il dolore, la corruzione o l’abuso si nascondono. “Il mestiere del giornalista non è di piacere, né di dispiacere. È di portare la penna nella piaga.” Con questo spirito si dovrebbe costruire un giornalismo che non teme le conseguenze che potrebbero essere generate dal portare alla luce la verità, ma le affronta pur di farla emergere.

Non si tratta solo di fare cronaca, ma anche di stimolare la memoria: ogni notizia è un frammento di storia, e il giornalista ha la responsabilità di archiviarla nel tempo che vive. “Il giornalismo può essere la prima bozza della storia.” La verità, però, non è quasi mai immediata, tantomeno comoda. Serve rigore, serve discernimento. “Il compito del giornalista è distinguere il vero dal falso, ma soprattutto il certo dal probabile.” In un’epoca dominata dall’ambiguità e dalla manipolazione, questo esercizio critico sarebbe più che mai necessario.

Eppure, troppo spesso il giornalismo si allontana da questa vocazione. Si trasforma in un mestiere che annaspa tra superficialità e autoreferenzialità, che si riduce a dare spiegazioni che non chiariscono nulla. “Il giornalismo è il mestiere di spiegare agli altri ciò che non si capisce.”  Un paradosso che riflette l’involuzione della professione verso l’inconsistenza.

Peggio ancora, il giornalismo tende a farsi complice del potere invece di sfidarlo. “Il compito dei media non è informare, ma formare l’opinione pubblica nei termini voluti dal potere.” In questa logica, l’informazione diventa un filtro, una costruzione pensata per orientare, per limitare, non per liberare. Ne è prova la narrazione binaria e disumanizzante di alcuni conflitti: da un lato le vittime degne di empatia, dall’altro numeri e statistiche spogliate di ogni volto, di ogni storia.

Il risultato è una sfiducia crescente nei confronti delle fonti ufficiali. “Se non leggi i giornali sei disinformato, se li leggi sei male informato.” Un’affermazione che sottolinea una realtà amara: la perdita di credibilità dell’informazione, schiacciata tra omissioni e deformazioni.

Spesso le notizie vengono ridotte a semplici curiosità, frammenti sconnessi che galleggiano nel flusso quotidiano, privi di contesto e di reale valore informativo. Si comunica un fatto, ma senza far capire perché sia importante o quale sia il suo legame con il mondo in cui viviamo. Come ha scritto un autore con amara ironia, “il giornalismo è la capacità di dire ‘Lord Jones è morto’ a gente che non sapeva nemmeno che Lord Jones fosse vivo.” In altre parole, si informa su qualcosa di cui nessuno conosceva l’esistenza, senza offrire strumenti per comprenderne il senso o l’impatto. Il fatto, così isolato, perde significato e diventa irrilevante. Un giornalismo del genere non costruisce coscienza, la disperde.

A questo si aggiunge una trasformazione del mestiere stesso: viene da pensare che si fa giornalismo senza più calpestare le strade, senza più cercare fonti dirette. “Il giornalismo è un mestiere che si fa in strada, non alla scrivania. Ma oggi molti lo fanno in poltrona, copiando le agenzie.” L’inchiesta lascia il posto al comunicato, la verifica all’automatismo, la verità alla convenienza.

Alcuni protagonisti del panorama mediatico, che non cito poiché la loro notorietà esonda, pur avendo mostrato in passato spirito critico e impegno, sembrano oggi essersi conformati alle dinamiche del potere. Le loro scelte editoriali appaiono segnate da una prudenza interessata, da un linguaggio che cerca il consenso più che la verità. Questo appiattimento non è solo una questione di stile, ma di sostanza: io penso che chi rinuncia alla sfida, quando questa si palesa, tradisce il compito fondamentale del giornalismo.

Servirebbe allora una riflessione profonda. A mio modo di vedere le cose il giornalismo, se vuole davvero essere ancora uno strumento reale d’informazione e di libertà, deve tornare a essere scomodo, esigente, onesto. Deve rifiutare il compromesso con l’opacità, riscoprire la strada della ricerca e soprattutto il valore della testimonianza. 

Solo così potrebbe tornare a meritare la fiducia dei cittadini e svolgere quella funzione vitale che gli è propria: supportare le regole irrinunciabili della democrazia attraverso una autentica ricerca della verità.


Nel testo le citazioni di: George Orwell, Albert Londres, Joseph Pulitzer,  G.K. Chesterton, Lord Northcliffe, Mark Twain, Enzo Biagi, Philip Graham Ryszard Kapuściński, Noam Chomsky. 

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