RITROVARSI

Arriva un momento, nella vita, in cui la realtà si mostra diversa. Forse perché, nel tempo, cambiano le prospettive da cui la osserviamo.
Impattiamo con essa in modo sottile, con una consapevolezza diversa, capace di aggirare i solchi lasciati da ferite rimaste nascoste per anni. Non per dimenticanza, ma per spirito di sopravvivenza. Esistono dolori che il cuore non sa tenere insieme, finché l’esperienza non lo rende pronto.

Quel momento non arriva per tutti, o almeno non arriva per tutti allo stesso modo. Più facilmente va incontro a chi è riuscito a gestire le sofferenze e, soprattutto, a non smettere di amare.
Chi, nonostante tutto, sa di portare ancora dentro di sé il seme originario: quell’atto d’amore senza il quale non saremmo nati.
Un gesto. Un abbraccio. Un’unione.
Da lì, giusto esserne consapevoli, un miracolo: la nascita, la vita.
Un dono sacro che, per quanto imperfetto, resta straordinario.

Eppure, come arriva, la vita inizia anche a correre, a farsi strada, beffarda, verso il suo stesso tramonto. Lentamente, un giorno alla volta.
E quando il corpo, invecchiando, arriva al termine, il cuore torna bambino: desidera presenza, mani che accarezzano, affetto e accoglienza. Desidera sentirsi a casa.

La casa non è solo un luogo.
È l’odore della torta la domenica.
È il suono delle risate mescolato al rumore dei piatti.
È la voce dei familiari che fanno sentire la loro presenza.
Poi ci sono i ricordi, i sogni: sia quelli realizzati, sia quelli andati in fumo. Le cose rimandate troppe volte, fino a perdere l’occasione.

Noi, guardando indietro, dobbiamo saper andare oltre ciò che ha fatto così male da farci perdere la capacità di vedere la parte buona, quella che ne è valsa la pena. Anche se fosse solo una parte risibile della vita vissuta.

È necessario saper ricordare cosa sentivamo nel cuore quando la stretta forte di un padre ci avvolgeva, mentre il mondo sembrava troppo grande e insicuro per noi.
Magari saper rivivere quei momenti passati viaggiando sulle sue spalle, vedendo il mondo da lassù, sentendosi giganti invincibili.
Ma anche il sicuro rifugio in uno sguardo, la complicità nascosta in piccoli gesti: dettagli che si ricordano anche dopo anni.

È strano, a volte, quanto (nonostante tutto) ci si possa abituare all’esistenza.
Dare per scontato ciò che non lo è, e per dovuto ciò che non è affatto dovuto.
Si banalizza tanto. Si cominciano a dare per scontate troppe cose.
Si dimentica la meraviglia, spesso a causa del dolore e della rabbia.

E, nel disincanto, anche i legami più profondi si annebbiano.

Non solo con i genitori. Ci sono fratelli che si allontanano, che parlano poco tra loro, perdendo la grande possibilità di vivere insieme le difficoltà e superarle, perché più forti.
Questo accade non per forza a causa di un bisticcio o di un’incomprensione. Spesso c’è chi si smarrisce anche stando vicino, vivendo nello stesso spazio.

Bisogna opporsi alla forma più bieca del silenzio. Quel silenzio che pesa più delle parole.
Che separa senza clamore.
Che trasforma gli abbracci mancati in macigni pesanti, poi difficili da rimuovere.

Eppure, l’occasione è sempre lì, a portata di mano. Anche nei legami spezzati resta qualcosa: ci sono cose che né il tempo né il rancore riescono a rompere.

Un filo sottile, invisibile.
Quando la carne è la stessa carne, quando il sangue è lo stesso sangue.

L’essere umano è fatto così: contraddittorio, bellissimo, fragile.
Capace di ferire proprio chi ama di più. Poi, magari, incapace di chiedere perdono.
Così si finisce per restare lontani, aggrappati a vecchi rancori, aspettando, senza una valida logica, che l’altro faccia il primo passo.
Ma il tempo corre, non si ferma, non aspetta nessuno.

Poi arriva quel giorno.
Quando la fine si scorge, là in fondo, beffarda, severa.
Il corpo non ha più energia, si piega. Lo sguardo si spegne. Non c’è più nemmeno la volontà.

E lì, davanti al mistero più grande, ogni rabbia si deve fare piccola, lasciando spazio solo al bisogno di tornare, di incontrarsi, di ritornare ad abbracciarsi.
È il momento di mettere da parte. È l’ora del perdono.

Tornare a guardare negli occhi chi ci ha dato la vita.
Anche se c’è stata assenza.
Anche se l’amore è stato imperfetto, interrotto, sbagliato.

Un figlio deve sapersi sedere a ricordare, spogliandosi di tutto ciò che leva luce.

Lo smarrimento vissuto prima va lasciato andare.
La voglia di rivalsa, la rabbia, quella che montava per dimostrare a se stessi che si può bastare da soli, adesso non ha più dimora.
Inutile recriminare sugli errori fatti, nel tentativo disperato di sentirsi abbastanza, di dimostrare di sapercela fare lo stesso.
Adesso, mentre chi ci ha permesso questa esistenza non ha più braccia e gambe per lottare, né sufficiente lucidità per pensare e per amare, tutto questo non ha più senso.
Questa è una fase diversa. Va compresa. Non c’è altro.

Il perdono, quando arriva, porta luce, semina il bene. E lo fa senza fare rumore.

È un sussurro, un respiro condiviso, una carezza posata su una pelle che non si toccava da tempo.
È un gesto che non cambia il passato, ma salva il presente.

E quando tutto si ferma, quando la vita rallenta e si fa silenzio, restano i pensieri, i frammenti, i gesti mancati.
Le parole mai dette.

E allora, proprio lì, vicino all’ultimo confine, si apre la più grande possibilità: comprendere che l’amore, per quanto fragile, resta la cosa più vera.
Che ogni dolore, per quanto profondo, ha in sé un seme di luce.
Che tutto ciò che ci ha ferito può trasformarsi, se lo guardiamo senza paura.

Forse la vera riconciliazione non è tornare indietro.
È andare avanti, ma senza più portare il peso della colpa o della mancanza.
È guardarsi e pensare: “Siamo ancora qui. E questo basta.”

Soprattutto se si è consapevoli che ciò che ci attende, dopo, è altro.
È qualcosa di più grande.
È un posto dove il male, in qualunque forma provi a presentarsi, non può entrare.
Dove l’amore è intero.
Dove non servono le parole per riconoscersi.