Ombre di indifferenza: Riflessioni sulla responsabilità e l’ingiustizia

Quanti commenti si leggono, pensieri spesso evitabili che, forse perché esausti, non riusciamo a trattenere e decidiamo di condividere cercando una sorta di consenso, magari tentando una provocazione o, più semplicemente, per dare sfogo alle nostre inquietudini.

Un susseguirsi di pensieri generati da una cronaca che spesso ci travolge con immagini e notizie insopportabili, fino a spingerci a reagire d’impulso più che a comprendere, a cercare scorciatoie invece di affrontarne la complessità.

Purtroppo ci sono tanti commenti che, per tono e contenuto, fatico a collocare. È come se fossero sospesi in un limbo: privi di radici, incapaci di trovare posto nel mosaico delle prese di posizione e delle analisi che si susseguono.

Mentre propongo questa riflessione, ovviamente, considero che dietro ogni pensiero scritto esiste una forma di intelligenza che lo produce. Considero anche che l’intelligenza, intesa come l’insieme delle capacità mentali e psichiche che ci permettono di comprendere e interpretare la realtà, dare un significato oggettivo alle informazioni e organizzare le nostre azioni sia sul piano pratico che concettuale, sia un dono distribuito in egual misura a tutti gli esseri umani; tuttavia, ciò che ne determina la forza e la profondità non è la sola potenzialità, ma la volontà di coltivarla.

Un po’ come accade con un fiore, una pianta, un animale che scegliamo di accudire: possiamo crescerli con amore, nutrimento e attenzione, oppure lasciarli patire fino al punto in cui, inevitabilmente, mostreranno il segno dell’incuria.

Così è anche per la capacità di ragionare, di costruire pensieri lucidi e fondati: sono necessari cura, esercizio, esposizione alla complessità. È una responsabilità personale che non possiamo delegare.

Quando un’idea nasce senza dare la necessaria attenzione ai fatti, magari frutto di condizionamenti, slogan o pregiudizi, rischia di diventare proposta sterile. O peggio, di trasformarsi in uno strumento capace di giustificare l’ingiustificabile.

Colpisce, ad esempio, il modo in cui, di fronte a tragedie vicine o lontane, alcuni inseriscano richiami ad altre sofferenze per relativizzare o spostare il discorso altrove. È necessario riconoscere quelle sofferenze, ma non ha alcuna logica usarle come alibi per minimizzare o distorcere ciò che accade, qualunque sia il contesto o chi ne detiene il potere di racconto.

Il dolore non si può misurare con una bilancia. Ogni tragedia è intollerabile. Ovunque e chiunque ne sia vittima.

Viviamo un’epoca in cui ciò che accade ci appare spesso grazie a canali informativi non convenzionali. Molti, generalizzando, liquidano tutto come “pattumiera dell’informazione”, ma talvolta alcune fonti, accuratamente selezionate, riescono a colmare il vuoto lasciato dai circuiti ufficiali, quando questi si piegano a convenienze, calcoli e silenzi. Questo non assolve nessuno: ci chiama, semmai, a un doppio impegno di verifica, discernimento e responsabilità.

Non chiamiamo con eufemismi ciò che la realtà mostra: l’ingiustizia, comunque si presenti, resta ingiustizia. E non merita attenuanti linguistiche né scuse di comodo.

La realtà che stiamo vivendo ormai già da troppo tempo dovrebbe diventare, per tutti, l’occasione per dire basta a ogni forma di distrazione. Basta alle giustificazioni di chi, comodamente seduto nelle stanze del potere o dove si selezionano e poi divulgano le notizie, si presta al commento più banale, alla retorica e alla manipolazione calpestando vite e verità, trattando le persone come pedine sacrificabili e la verità come qualcosa di manipolabile, da gettare al consumo più ordinario possibile.

Non serve guardare lontano per capire come l’attenzione pubblica si sposti, si affievolisca, si deformi sotto il peso di narrazioni contrapposte e parole vuote. Troppo spesso, assistiamo a racconti che avrebbero bisogno di essere corretti, verificati, sottoposti a un ragionamento approfondito o, in certi frangenti, addirittura direttamente relegati a un più opportuno silenzio.

Molte fratture della nostra convivenza si potevano evitare: qualcuno invece ha preferito alimentarle, lasciandole crescere come una malattia cronica che divora tempo, fiducia e futuro.

Il mondo non manca di orrori, lo sappiamo. La nostra responsabilità è non voltare lo sguardo, almeno quello. Non pesare le tragedie in base alla convenienza o all’appartenenza. Non permettere che la nostra intelligenza, come un fiore dimenticato in un vaso secco, appassisca nell’indifferenza.

Abbiamo due possibilità in questa esistenza: essere individui integri, capaci di porsi di fronte alla verità con lealtà, rinunciando alla comoda tentazione di cercare scuse per convivere con la nostra ipocrisia; oppure consegnarci ad essa e camminare per il resto dei nostri giorni con una maschera così grande da coprire perfino la vergogna.