Realtà collettiva e responsabilità personale

In questi giorni emergono con crescente chiarezza episodi che, ancora una volta, rivelano la slealtà di figure chiamate a esercitare un ruolo di guida nei momenti più difficili della nostra storia recente.

L’amarezza che ne nasce non riguarda solo i singoli comportamenti, ma il riflesso che essi hanno sulla fiducia collettiva e sul senso stesso di comunità.

Ciò che mi spinge a riflettere non è tanto l’episodio isolato, quanto il modo in cui esso svela l’ipocrisia che si maschera da virtù e finisce per ferire in profondità i legami umani.

Scelgo volutamente di non indicare in modo esplicito a quali episodi o contesti io alluda: si tratta infatti di questioni delicate che hanno già lacerato rapporti di amicizia e persino legami familiari molto stretti.

So però che, al di là delle differenze di opinione, in questa vicenda siamo stati tutti in qualche misura raggirati.

Attraversiamo un periodo storico in cui l’ipocrisia, vestita da virtù, sembra proiettare un’ombra più pesante che mai sulla condizione umana.

È come una maschera che, indossata, occulta il volto della verità.

Più insidioso della violenza che, pur nella sua brutalità, si mostra per ciò che è, l’inganno si muove in silenzio, nascosto dietro parole rassicuranti e curate apparenze di onestà.

Proprio questa sua capacità di insinuarsi senza clamore lo rende tanto pericoloso: non resta confinato a pochi casi isolati, ma ritorna con volti sempre nuovi, insinuandosi nei rapporti e negli spazi comuni.

Con sempre maggiore frequenza emergono forme diverse di inganno che, beffarde, oltre a colpire direttamente chi le subisce, finiscono per minare la fiducia reciproca, le istituzioni e chi è chiamato a esercitare un ruolo di guida nei momenti più pressanti.

L’inganno ha davvero una forza dirompente: è capace di strappare i fili invisibili che tengono insieme la convivenza, diventando un veleno che scorre sotto la pelle del tessuto sociale, trasformando ciò che dovrebbe fondare l’unione in sospetto e divisione.

La storia, tuttavia, non è segnata solo dal tradimento delle grandi istituzioni o della politica.

L’inganno spesso si annida nelle pieghe del quotidiano: nel desiderio di prevaricare il prossimo, di portare a compimento un progetto o un affare, o semplicemente di apparire conformi alla massa.

In tutti questi casi prevale l’ansia di mostrarsi diversi da ciò che si è, invece del coraggio di agire secondo cuore e ragione.

Ecco il paradosso: più ci sforziamo di apparire, più proviamo a conformarci, e più rischiamo di coprire l’ingiustizia subita o, peggio, quella a cui abbiamo partecipato.

Non possiamo però limitare lo sguardo agli “altri”: l’autoinganno riguarda ciascuno di noi.

Chi non ha mai sentito l’impulso di mostrarsi migliore, di giustificare un errore, di proteggere un’immagine coerente quando dentro si agitano fragilità e contraddizioni?

La vera sfida è vigilare su noi stessi prima che sugli altri: un esercizio di crescita che richiede coraggio e onestà.

Solo partendo da questa onestà interiore diventa possibile distinguere ciò che è davvero giusto da ciò che ne porta soltanto l’apparenza.

Se l’ingiustizia più pericolosa è quella che indossa una veste di giustizia, allora la giustizia autentica nasce dal coraggio di togliere la maschera: da sé e da chi, per abitudine, ha scelto la slealtà travestendola da verità.

Ed è proprio in questo svelamento che si apre il tema della verità: non come possesso definitivo, ma come ricerca umile e condivisa.

Non credo sia utile inseguire una verità assoluta da imporre al prossimo: essa difficilmente si mostra chiara in tutta la sua completezza.

Possiamo però richiamarci a una verità più semplice e radicale: riconoscere le nostre fragilità, ammettere i nostri limiti, rinunciare al fascino ingannevole del conformismo e delle apparenze.

Solo così, credo, possiamo uscire dal teatro delle finzioni e restituire alla parola “persona integra” il suo significato più vero e umano.

Solo così possiamo guardarci con rispetto, riconoscendo in chi condivide il nostro spazio la dignità che gli spetta.

Perché ciascuno di noi, in quanto persona, possiede un valore che non può essere limitato, ridicolizzato o piegato da nessuno: né da chi ricopre ruoli di guida e di potere, né da chi, nella vita di tutti i giorni, si illude di avere doti superiori a quelle degli altri.

Ed è bene ricordarlo sempre per gestire al meglio le dinamiche del vivere quotidiano e per offrire un esempio a chi è chiamato a servire la comunità nelle istituzioni, nella politica e nei ruoli di governo: non come privilegiati al di sopra degli altri, ma come custodi del bene comune e della fiducia che tiene insieme la società.