
Accade sempre più spesso che i fatti, invece di chiarire la realtà, la rendano frammentata e contraddittoria. Non per colpa delle solite improbabili “fake news”, ma per il modo in cui i media, spesso guidati da interessi esterni, piegano le informazioni, talvolta in contrasto con testimonianze dirette e lavori indipendenti. Per questo, invece di lasciarci trascinare dal polverone, dovremmo provare a dare un segnale diverso: provare a sottrarci in qualche modo a questo meccanismo e restituire valore al pensiero libero.
Siamo immersi in un flusso continuo di notizie, commenti, immagini e slogan. L’informazione, che un tempo aveva il compito di supportare e stimolare la crescita della conoscenza e della consapevolezza, oggi sembra avere sempre più spesso l’obiettivo opposto: orientare opinioni, ridurre la capacità di giudizio e uniformare il pensiero collettivo. La conseguenza è che molti rinunciano a pensare con la propria testa, scegliendo di accogliere passivamente narrazioni già pronte.
Il risultato è una società divisa artificialmente in fazioni contrapposte, ciascuna convinta di difendere “la verità” purché proposta dalla parte politica di appartenenza. Dietro la superficie di queste dinamiche attentamente programmate, le élite, al di là delle etichette ideologiche, condividono lo stesso obiettivo: mantenere una posizione dominante e rafforzare il proprio ruolo.
La logica che regola questo processo è sottile ma efficace: da un lato si impongono le versioni ufficiali, dall’altro si ridicolizza o si silenzia chi prova a dissentire, offrendo chiavi di lettura e informazioni diverse. Chi solleva dubbi viene quasi sempre bollato come visionario o complottista, fino a essere addirittura escluso dal dibattito pubblico. La pluralità delle voci si restringe e con essa si impoverisce la possibilità di un pensiero critico.
Un esempio, tra i tanti possibili, è quello che riconduce alle tesi di Giulietto Chiesa. Non lo cito perché esempio principale, ma perché mi ha sempre suscitato una simpatia spontanea, quasi istintiva, nonostante la lontananza ideologica che per molto tempo mi ha tenuto distante da lui, quando ancora pensavo avesse un senso l’appartenenza politica. Già anni fa Chiesa denunciava il rischio di manipolazione dell’informazione e preannunciava imminente lo scontro tra blocchi mondiali. Le sue parole erano spesso liquidate come esagerazioni, se non fantasie di un uomo di cultura che aveva smarrito la strada della ragione. Eppure, gli eventi successivi hanno finito per confermare molte delle sue analisi, anche in modo sorprendente. La sua vicenda, e non solo la sua, dimostra che il potere non si limita a imporre una narrazione, ma lavora anche per neutralizzare chi cerca di raccontarne un’altra.
Non è però un meccanismo nuovo. Già Platone, con il mito della caverna, ci mostrava uomini incatenati costretti a scambiare ombre per realtà. Chi riusciva a liberarsi e provava a raccontare ciò che aveva visto fuori veniva deriso, considerato folle, persino osteggiato. Una dinamica antica, che oggi si ripresenta con nuove forme e strumenti, ma con la stessa logica di fondo.
Lo stesso schema, purtroppo, si è visto anche durante la recente crisi sanitaria. Al di là delle posizioni personali, è innegabile che diversi scienziati di grande esperienza abbiano espresso dubbi sulle politiche adottate e sulla sicurezza dei protocolli. Non erano opinioni improvvisate, ma riflessioni fondate su studi e ricerche. Eppure, queste voci vennero screditate, ridicolizzate, espulse dallo spazio mediatico. Il confronto, invece di aprirsi, fu chiuso con etichette di “pericolosità” o “infondatezza”.
Con il tempo, alcune delle loro osservazioni hanno trovato purtroppo riscontro: oggi certi effetti collaterali vengono studiati con maggiore attenzione e la casistica conferma le preoccupazioni di alcuni. Oggi qualcosa rende il quadro ancora più amaro: gli ultimi eventi emersi dalla cronaca hanno mostrato come la cosiddetta scienza ufficiale non sia stata sempre libera. Riunioni riservate tra scienziati “omologati” e istituzioni politiche hanno evidenziato come, in più di un’occasione, la ricerca scientifica sia stata piegata da pressioni esterne, sacrificando proprio quel rigore e quell’indipendenza che dovrebbero costituirne la forza e lo spessore.
Tutto questo ci porta a riconoscere l’esistenza di una vera e propria pedagogia di massa. Non si tratta di un autentico percorso educativo, ma di un meccanismo che stabilisce cosa sia lecito pensare e, soprattutto, cosa debba essere ignorato. È una pedagogia negativa: non emancipa, ma condiziona; non stimola, ma ridicolizza; non apre al confronto, ma cancella ogni voce che esce dal coro.
Eppure non perdo la mia vena positiva: anche dentro questo immaginario recinto, uno spazio di libertà e di autenticità resta possibile. Penso anche ai social, strumenti per molti motivi assolutamente criticabili, che spesso ci imprigionano in dinamiche programmate, trasformando il like e l’immagine patinata in misura del valore personale. Ma, non senza dubbi e ripensamenti, ritengo che quelle stesse piattaforme possano rappresentare un luogo dove dare forma a una qualche resistenza, se usate con più responsabilità per lasciare tracce del proprio pensiero. Non solo spazio dove condividere piatti prelibati, tramonti romantici o improbabili autoscatti, ma occasione per promuovere parole, frutto del pensiero individuale, qualcosa che affermi la nostra presenza come persone pensanti. Segnali di vita, capaci di incrinare la convinzione di chi crede di aver già vinto la sua partita, di poter continuare a sbeffeggiare e ridicolizzare l’esistenza delle persone che dovrebbe invece servire, rappresentare e proteggere.
Rimane comunque a noi la possibilità di adoperarci per una sorta di risveglio interiore: coltivare la consapevolezza, esercitare il dubbio, allenare la capacità di interrogarsi. Sono gesti piccoli, fragili, ma fondamentali. Certo non azioni ridicole e prive di logica come promuovono coloro che lavorano per condurci nella trappola del consenso programmato. Forse è proprio da lì, da questo spazio minimo di resistenza, dove è ancora possibile proporsi come individui pensanti e integri, che può nascere una nuova possibilità, una luce in fondo al tunnel imboccato dal treno dell’Occidente, di cui il nostro Paese è vagone.
Se i fatti continuano a presentarsi in forme contraddittorie e le voci indipendenti vengono oscurate, resta a noi la responsabilità di non smarrire la rotta. Non possiamo impedire che il potere provi a orientare le coscienze, ma possiamo scegliere di non arrenderci al torbido. È nel gesto semplice di coltivare un pensiero libero, nell’atto umile di condividere una parola sincera, che si accende la possibilità di un cambiamento. Forse minimo, forse fragile, ma capace di restituire al futuro la sua luce.