
Andando avanti nella tormenta dei nostri tempi provo a districarmi tra rari spazi nuovi da esplorare e altri, ormai abituali, che, ostaggio del controllo e dei controllati, si sono trasformati in arene virtuali.
Luoghi in cui anime cariche di rabbia e frustrazione trascorrono il tempo a scontrarsi, regalando agli imperatori di oggi sollazzo e godimento, rafforzandone la posizione.
Dalla Roma antica alle piazze e agli schermi di oggi, lo schema non è mai cambiato. Al popolo viene concessa l’illusione di contare, ai protagonisti di turno la scena. A chi organizza il gioco resta il vero privilegio del controllo: ieri imperatori e lanisti, oggi leader, media e poteri economici. Le forme cambiano, ma la sostanza resta la stessa.
Eppure conosciamo queste dinamiche, non abbiamo in genere deficit cognitivi che rendono più complicata la comprensione e (il pensiero) non è una proprietà che qualche improbabile illuminato possa distribuire al popolo decidendone la misura.
Ciò che manca probabilmente è la volontà e il coraggio di far leva sulla comprensione e sulla logica, oggi che la conoscenza e la consapevolezza non sono più ostaggio di percorsi impossibili come ai tempi dell’impero romano.
Fatico ad adattarmi e soprattutto ad accettare queste logiche, dentro di me prevale sempre più un senso di buio. Non un buio che confonde, ma un’oscurità che grava sulle giornate e rende faticoso continuare a nutrire pensieri luminosi da sviluppare e magari condividere con chi prova a camminare fuori dalle fila.
Non mi sento migliore di altri.Critico e mi dispero per la resa incondizionata a cui sto assistendo. Una resa che logora la capacità di restare in equilibrio tra il desiderio di sperare e la tentazione di abbandonarsi alla disillusione.
In questo clima mi disturbano ancora le bassezze di cui la politica è guida e maestra. Segno evidente di quanto anch’io sia ancora lontano da ciò che penso, scrivo e condivido sul compito che abbiamo come individui rispetto a ciò che ci accade intorno.
Fatico a metabolizzare l’ipocrisia e i raggiri che si intrecciano con la vita quotidiana. Non sopporto la capacità di tanti, nella politica come nelle istituzioni e nei media, di approfittare di ogni cosa per raggirare il cittadino e trarne vantaggio.
Come non bastassero gli slogan consunti o le contrapposizioni ideologiche: ora ascolto leader che strumentalizzano persino parole che non appartengono e mai apparterranno al loro essere, piegandole a meri fini propagandistici.
Si parla spesso di “risveglio” di questi tempi, lo fanno per sostenere propaganda e finte preoccupazioni verso le tragedie che insanguinano i popoli.
Non sazi brandiscono slogan preparati con astuzia, sapendo bene cosa possono suscitare in chi, disorientato, cerca senso e verità. Lo fanno con cinismo, svuotando di significato concetti profondi, trasformandoli in reti capaci di catturare consenso.
Manipolare, per esempio, il significato autentico del “risveglio”, quello spirituale e filosofico, è solo l’ennesima messa in scena a cui assistiamo senza nemmeno un sussulto di sdegno: un abuso linguistico utile a chi gioca la partita del potere.
Eppure quella parola ha un valore assai diverso: non pretesto ideologico, né promessa collettiva, ma cammino interiore, lento e personale. Non un’illuminazione improvvisa, piuttosto una trasformazione che nasce dall’ascolto di sé, dal silenzio, dalla responsabilità. Un modo per restare nella luce quando tutto intorno tende a oscurarsi.
La verità, almeno quella che vedo io, si fa buia: nelle piazze reali e in quelle virtuali non noto segni particolari di risveglio. Assisto piuttosto a insulti quotidiani, da destra e da sinistra senza distinzione.
Ancor più paradossale è che queste invettive spesso non colpiscono solo le figure politiche, che addirittura vengono difese come eroi per i quali vale la pena immolarsi, ma si riversano spesso e ferocemente nello scontro personale.
Come se fossimo tutti inconsapevoli di rappresentare null’altro che la folla urlante del Colosseo: comparse senza possibilità di incidere nella miserevole guerra tra poveri dei nostri giorni.
Una responsabilità che quasi tutti negano, ma che molti portano sulle spalle: rappresentazione malinconica che logora i legami e lascia indisturbati coloro che avrebbero il dovere di rispondere alle urgenze del presente. Quei leader che, tradendo regolarmente il loro mandato, continuano a giocare la partita del potere; mentre noi, irresponsabili, finiamo complici di questa recita amara.
So bene che l’odio, in ogni sua forma, è la tentazione più facile.
Qualcosa capace di illudere un possesso di maggiore forza, ma nella realtà cosa che ci rende fragili e manipolabili. Si tratta banalmente di un sentimento che nasce dall’insicurezza, dalla paura, dall’incapacità di affrontare i nostri limiti. Rivela spesso un’anima ferita e trascurata.
Quanto scrivo è cosa che riconosco negli altri, ma inesorabilmente anche in me stesso, nei momenti di stanchezza, quando diventa più semplice arrendersi al rancore piuttosto che continuare a coltivare la speranza. Penso anche che, se davvero vogliamo cambiare, per noi e per i nostri figli, non possiamo cedere a questo meccanismo sterile. Dobbiamo invece ritrovare la forza della coscienza critica, il coraggio di pensare con la nostra testa e la capacità di trasformare il malcontento in energia creativa.
Questo (non perdiamoci in sciocchezze) non è compito riservato a pochi più dotati di altri: è una responsabilità in carico a tutti, un esercizio quotidiano che ci chiede di scegliere la verità invece della menzogna, la solidarietà invece della divisione.
Quell’abbraccio commovente rappresentato dall’immagine che accompagna il testo non è soltanto un gesto di innocenza, ma un richiamo potente. È la promessa che due mondi separati e resi nemici dalla cieca violenza possono incontrarsi e riconoscersi in un altro modo.
Forse saranno i giovani a ricostruire un mondo più giusto; ma a noi resta l’importante compito di non tradire la loro speranza, di non spegnere la luce che possibilmente li guiderà.