L’OCCASIONE TRADITA

 

Mentre continua la nostra navigazione in questa fase drammatica della storia, oggi feroce e crudele come mai prima, si è presentata un’occasione grande come poche.
Una di quelle che non si inventano, ma che arrivano da sole, portate dal vento della passione, della necessità e forse da ciò che resta dell’umanità di alcuni.

Alludo a ciò che ha generato la nascita della Global Sumud Flotilla, sorta apparentemente dal bisogno comune di compiere un gesto di pace, di presenza, di dignità.
L’obiettivo dichiarato era rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza, rifornire di viveri e medicinali la popolazione palestinese colpita dalla carestia come conseguenza dei combattimenti e stabilire un corridoio umanitario.

Un’iniziativa alla quale non si può negare l’apprezzamento, e che avrebbe anche potuto restituire al nostro tempo un’immagine più limpida: quella di un popolo che, al cospetto delle più atroci e insopportabili crudeltà, si mobilita per ricordare che, quando si oltrepassa il limite, la solidarietà non ha frontiere e la compassione non conosce confini.


All’inizio ha comprensibilmente prevalso l’entusiasmo.
Imbarcazioni di ogni tipo e grandezza salpano cariche di aiuti, di intenzioni, di speranze, di bandiere.
Le mani si stringono, le voci si incoraggiano, gli sguardi si rivolgono verso Oriente con la promessa di un gesto simbolico, forte, necessario.
Sembrava davvero che, per una volta, la società civile avesse ritrovato il coraggio di muoversi, di farsi corpo, di agire.

Ma, quasi subito, osservando meglio, tra quelle stesse barche, tra i sorrisi e i canti (primi segnali stonati), si intravedono i soliti volti.
Quelli che conosciamo bene, che non mancano mai, in nessuna occasione, in nessuna causa.
Figure abili nel confondersi tra la gente, nel farsi passare per parte del tutto, ma che rispondono ad altre logiche, ad altri centri.
Si infilano dove sentono odore di visibilità, si mescolano ai sinceri (e i sinceri ci sono, va detto, ma vengono usati), orientando emozioni e gesti delle masse.
Sono meri portatori d’interessi camuffati da compagni di viaggio, estensioni di poteri che restano nell’ombra mentre decidono chi merita la compassione del giorno e chi l’indifferenza del silenzio.


Così, quando la flottiglia viene fermata nella sua navigazione, qualche miglio prima di raggiungere le coste della Palestina, tutto ciò che poteva essere segno di coscienza si scioglie in un miscuglio di accuse, giustificazioni e clamore.

Sarebbe stato corretto illustrare, prima di salpare, ciò che sarebbe accaduto.
Alcune dinamiche non sono interpretabili, né possono essere modificate dalla pur apprezzabile volontà.
Promuovere l’iniziativa evitando di far credere alla gente fantasie irrealizzabili non avrebbe minimamente sminuito il valore del gesto e, probabilmente, avrebbe fatto arrivare gli aiuti a chi non può più aspettare.


Subito dopo, come un’eco distorta, arriva la seconda fase: quella della protesta disordinata, le piazze.
Le stesse mani che avevano tracciato le rotte e sventolato i colori della pace passano a mostrare i pugni.
Le stesse voci che avevano cantato, esortando alla comprensione e alla ragione, ora si espandono tra urla e minacce.
E mentre il mare torna calmo, la terra prende fuoco: la discesa in piazza, ovviamente aizzata dai soliti fomentatori, porta con sé scontri, violenze, vetrine infrante, volti coperti, bandiere strappate.

Ogni spirito benevolo, ogni principio di solidarietà, svanisce in quella confusione rabbiosa.


A fronte di questa degenerazione dell’iniziativa, senza alcuna ragione né logica, ho letto e ascoltato i commenti di chi godeva del conclamato insuccesso degli altri, quelli che fin dall’inizio avevano osservato, ironizzato, atteso il momento del fallimento per poter ostentare la propria improbabile ragione.

Anche loro, mentre si compiacciono del fallimento altrui, restano prigionieri della stessa ipocrisia.
Perché non c’è vincolo più forte di un errore condiviso, quando serve a illudersi di avere ragione.


E intanto, altrove, sotto le bombe della ferocia più insensata, le madri stringono in grembo i corpi sfigurati dei figli che non respirano più.
Le ultime case si sbriciolano, la polvere si mescola al sangue e, mentre la speranza muore, la tregua arriva sempre troppo tardi. Sempre.

Ma qui, tra il mare e la terra, dove le insidie di un campo di battaglia sono rappresentate dalla tastiera e dallo schermo di un tablet, tra la retorica e la rabbia, tutto si confonde.
Tutti a dire, a spiegare, a rivendicare.
Tutti pronti a usare la storia senza applicare la logica, a citare guerre e ingiustizie, estrapolando pezzi di verità per piegarli alle proprie ragioni.
Come se la verità potesse davvero appartenere a qualcuno.
Come se il dolore avesse un’etichetta, una bandiera, una parte da difendere.


Eppure non è la prima volta.
Abbiamo già visto e vissuto gli stessi scenari in diverse occasioni, l’ultima non molto tempo fa.
Abbiamo ascoltato tante parole al vento per il conflitto in Ucraina: le bandiere ai balconi, i profili colorati, le analisi improvvisate da salotto.
Tutti esperti, tutti schierati, tutti imbeccati, come sempre, da chi decide cosa dobbiamo pensare e quando dobbiamo piangere.
E quasi nessuno che ricordasse la storia che ha portato fino a lì.
Tutti preoccupati a dare la ragione, senza usare la ragione.
Come se qualche conflitto nella storia avesse mai saputo raccontare qualcosa di ragionevole e non portato alla morte solo innocenti, da una parte e dall’altra.

Mentre chi disegna i confini del mondo spostava le pedine del suo risiko, aprendo ferite che il mondo ha preferito ignorare.
Bambini morti anche lì, villaggi distrutti, famiglie divise.
Spesso non ci sono telecamere, né bandiere giuste da mostrare, né slogan da ripetere.


E in ogni guerra, sotto i missili, le madri piangono i propri figli morti per la sete di potere dei generali della democrazia, anime innocenti che non abbracceranno mai più.

Dovremmo fermarci più spesso a riflettere su come funziona il macabro gioco dei malfattori che tengono in ostaggio l’umanità intera e provare a sfilarci,
non commuovendoci a comando,
non indignandoci a orologeria,
non dimenticando a intermittenza.


Dovremmo prendere coscienza del fatto che finiamo per reagire solo quando il dolore è autorizzato, quando ha un colore riconoscibile, quando non disturba le nostre certezze.
Ma tacciamo quando il sangue scorre nei luoghi dove non arrivano le telecamere, nei Paesi che non conosciamo nemmeno per nome, sotto cieli che non abbiamo mai guardato.

Potremmo ritrovare noi stessi, forse, cominciando a capire che non c’è nulla di più indecente di chi scava nella storia o nell’attualità solo per costruirsi un argomento.
Accettare la possibilità che la verità non è mai unica, e soprattutto che non appartiene a chi la usa come arma.
Non è nelle disponibilità di chi riduce la memoria a un accessorio retorico, né in chi confonde la pietà con la propaganda.


Forse, più che un lungo pensiero, questo è diventato uno sfogo.
Ma sono infastidito, perché ciò che poteva rappresentare un’opportunità si è trasformato in un’occasione perduta, in un impasto torbido: un insieme di ragioni e menzogne, di buone intenzioni e di vanità.
Non un popolo unito che, prendendo coscienza, avanza in una riscossa, ma una massa disordinata, preda di reazioni impulsive, regalata ai più sterili slogan e ai risentimenti.

Dalla possibilità di accendere il fuoco della riscossa siamo finiti nel fango che ci siamo tirati addosso, gli uni contro gli altri.
Abbiamo rimescolato parole e gesti fino a ridurli in qualcosa che non nutre, non scalda, non costruisce nulla.
Solo residui. Solo ciò che poteva essere e non è stato.


E alla fine, della possibilità di rinascere, abbiamo fatto una materia opaca, vischiosa, senza forma.
E in quella sostanza ci siamo specchiati, riconoscendo il nostro volto: un volto stanco, disabituato alla verità, incapace di distinguere la compassione dalla convenienza.

Perché, alla fine, e forse è questo il punto più amaro, tutto è stato sacrificato a discapito della coerenza.
In nome del consenso, della visibilità, dell’appartenenza.
Abbiamo tradito l’occasione, e con essa anche noi stessi.

E così, ancora una volta, di fronte a un gesto che poteva unire, abbiamo scelto di affogarci nella stessa poltiglia che abbiamo creato con le nostre mani.