
Mi è capitato di ascoltare il monologo di Giuseppe Battiston nel film Il Corpo, un pugno nello stomaco, un breve spezzone recitato con bravura e che stimola profonda riflessione.
🎥 Guarda il monologo completo di Giuseppe Battiston in “Il Corpo”:
https://youtube.com/shorts/w0aP6_pqJzA?si=7AXTQ8JLmtYgN7Gx
Un grido che rompe il silenzio della nostra epoca: quella che pretende di vederci sempre felici, performanti, sorridenti.
Nel suo “Io voglio stare MALE!” c’è tutta la ribellione di un individuo contro un sistema che non tollera la tristezza, che la teme, che la nasconde sotto strati di sorrisi addestrati.
Mi piace considerarla come una denuncia potente nei confronti di una società che medicalizza il dolore, che lo considera un difetto da correggere, invece di riconoscerlo come parte inevitabile e necessaria dell’esperienza umana.
Ed è da quelle parole che sviluppo questo pensiero.
Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di parlare con persone che attraversano un periodo difficile (un figlio, un amico, un conoscente) e in ognuna di quelle conversazioni ho riconosciuto lo stesso smarrimento, uno smarrimento che conosco bene perché attraversato.
La preoccupazione per chi soffre, il desiderio di aiutare, ma anche la paura di non saperlo fare.
Una paura che, a volte, ci porta a muoverci troppo, a parlare troppo, a voler “risolvere” ciò che non si risolve, a volte anche perché non chiede di essere risolto.
Viviamo immersi in un sistema che ci vuole lucidi, forti, efficienti.
Un sistema che ci disabitua alla lentezza e ci spinge a considerare la sofferenza come una deviazione, non come una tappa.
Eppure, la sofferenza arriva, sempre, a ricordarci che siamo vivi.
A ricordarci che la fragilità non è un difetto, ma una soglia attraverso cui può nascere qualcosa di più vero.
Spendersi troppo, magari sopraffatti dalla preoccupazione, può diventare controproducente: l’ansia di “fare qualcosa” rischia di farci perdere l’ascolto, la presenza.
A volte, l’aiuto più grande è restare. Restare accanto, senza cercare subito la via d’uscita.
Perché non tutte le tempeste si affrontano cercando qualcosa di utile a ripararsi: alcune si attraversano, punto.
Imparare a convivere con la sofferenza non significa arrendersi.
Significa riconoscere la vita, che non è un susseguirsi di momenti felici, ma un alternarsi di chiaroscuri.
Ogni ferita può insegnare qualcosa; ogni caduta, se accolta con consapevolezza, può trasformarsi in forza.
L’autenticità non nasce dalla perfezione, ma dalla capacità di accettare le proprie ombre.
Viviamo, tra l’altro, in un’epoca in cui la gioia si misura a colpi d’immagine.
Il sorriso è diventato una sorta di divisa: una maschera lucida da indossare per sembrare vivi, presenti, efficienti, anche quando dentro si è spenti, disorientati, malinconici.
Un teatro della felicità obbligatoria, dove ognuno recita la propria parte temendo che la tristezza possa rivelare troppo; fragilità, imperfezione… umanità.
E in questa recita collettiva, molti rischiano di smarrirsi.
I giovani, certo, più esposti e fragili, cresciuti dentro un sistema malato che confonde il valore personale con la performance.
Ma non solo loro: anche adulti, padri, madri, professionisti, persone che hanno faticato per costruire qualcosa o che non sono riuscite a farlo.
Alcuni, vittime del troppo: di un benessere che anestetizza e svuota, che illude di bastare a se stesso.
Altri, invece, schiacciati dall’impossibilità di realizzarsi, di sostenere economicamente la propria vita o quella dei propri cari.
Tutti, in modi diversi, convinti da una narrazione costruita ad arte: che il benessere coincida con il successo, che il valore di una persona si misuri in ciò che possiede, che l’apparire conti più dell’essere.
Così la tristezza diventa colpa, la fatica vergogna, la fragilità un ostacolo da eliminare.
E allora, sempre più spesso, c’è chi cerca sollievo nei farmaci o, peggio, in rifugi illusori e distruttivi.
Una strada che allontana ancora di più, perché anestetizzare il dolore non significa guarire: significa solo rimandare l’incontro con se stessi.
Il dolore non è un errore da cancellare: è un passaggio che, se attraversato con consapevolezza, può diventare conoscenza, radice, vigore.
La vera forza è un’altra.
La vera forza è restare autentici, anche quando l’autenticità costa.
È scegliere di non fingere, di mostrarsi per ciò che si è, senza sforzarsi di apparire migliori, più felici, più stabili.
È saper stare nella propria ombra senza vergogna, riconoscendo che anche l’ombra è vita.
Non esiste luce che non generi oscurità: ogni cosa luminosa, positiva o rivelatrice porta con sé un lato d’ombra, poiché la luce stessa definisce e dà forma all’oscurità.
Attraversare l’infelicità non è un segno di resa, ma di coraggio.
Chi piange, chi cade, chi si lascia attraversare dal dolore senza mascherarlo, compie un atto di coraggio, di verità.
Solo attraversando la notte si può riconoscere davvero l’alba.
L’apparenza può lenire l’istante, ma solo la verità, anche quando ferisce, aiuta a costruire.
Nel volto di chi soffre senza fingere c’è più autenticità che in mille sorrisi addestrati.
Perché nell’autenticità respira la vita: nuda, vulnerabile, ma vera.
Essere autentici oggi è un atto di resistenza.
Non contro il mondo, ma contro la paura di non essere accettati.
Ogni volta che preferiamo la verità alla finzione, ci avviciniamo un po’ di più alla nostra essenza libera.
Viviamo un tempo che celebra l’apparenza e pare temere la profondità.
Che tende a confondere la serenità con la superficialità.
Eppure, è proprio nel dolore, quando le maschere cadono e restiamo soli con noi stessi, che la vita ci parla con chiarezza, che ci ricorda che la felicità non è un dovere, ma un’opportunità.
Nessuno può imporre la felicità, e chi la simula ne tradisce l’essenza.
Essere vivi non significa essere sempre felici.
Significa sentire tutto, fino in fondo.
L’esempio da seguire è quello di chi non teme di mostrarsi fragile, di chi non ha bisogno di fingere la gioia per essere apprezzato.
Perché nella verità, anche quella più ruvida, c’è sempre spazio per respirare.
È in quell’autenticità, così disarmante e così rara, che si trova la forma più pura della vita.
Questo, credo, è ciò che vale la pena trasmettere di fronte a un amico, a un figlio, a chi amiamo:
non la promessa di una felicità costante, la soluzione immediata a un problema o a una difficoltà,
ma il coraggio di restare, di essere veri.
Perché la verità condivisa sa guarire più di ogni consiglio.