CREPE E SPERANZA

Succedono tante cose, temi diversi e cose già commentate in altre riflessioni che tornano a rendersi visibili da prospettive diverse. La vita corre, la cronaca incalza, le cose accadono, e queste cose, ascoltate o lette in momenti particolari, riescono a incidere e costringono a fermarsi, a interrogarsi e a riprendere in considerazione pensieri che in qualche modo sembravano già composti.

Negli ultimi tempi ho scelto di dare meno spazio alle notizie, non per indifferenza, ma perché percepisco che il modo in cui ci vengono divulgate non aiuta a comprendere, ma semmai a generare reazioni. Sembra quasi che qualcuno decida per noi cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, quali dolori meritino attenzione e quali possano rimanere ai margini, quale studioso stia condividendo i risultati dei propri approfondimenti e quali, invece, abbiano perso il senno condividendo diverse teorie sviluppate da qualche entità regalatasi alle peggiori derive del complotto.

Ci sono fatti che scendono più in profondità del solito, e lo fanno senza preavviso. Particolarmente ruvide sono quelle storie di violenze consumate dentro le mura domestiche, dove bambini, donne e talvolta uomini vengono travolti da dinamiche che lasciano ferite difficili da nominare. Ma anche le notizie dei conflitti che sembrano non poter finire mai, che si sovrappongono e magari richiamano altri conflitti in un’eco dolorosa e continua, come se la sofferenza del mondo fosse destinata a tornare ciclicamente sotto diverse forme.

Riflessioni che, spesso, nascono proprio così: da un disagio che non riesce a celarsi nel silenzio. Un disagio come quello che si sviluppa leggendo dei minori sottratti a genitori assolutamente normali che hanno la sola colpa di aver scelto per la vita dei propri figli spazi non omologati dai regimi democratici.

La violenza, l’ingiustizia, il più bieco raggiro, quando si manifestano non hanno colori né appartenenze; non chiedono permesso e non rispettano confini. Sono lì da vedere. È il nostro sguardo, la nostra predisposizione alla comprensione, a essere disorientati, divisi, condizionati.

Ed è forse per questo che colpisce il silenzio che avvolge la tragedia che si sta consumando nel Sudan, un Paese schiacciato da una guerra che non accenna a fermarsi e che sembra scomparire dalle mappe emotive del mondo. Una carneficina che riecheggia, pur con storie e contesti diversi, il dramma che si consuma in Medio Oriente: due ferite lontane eppure accomunate dal dolore più atroce e dalle bandiere che sventolano i pochi superstiti allo stremo delle forze, mentre solo una parte del mondo sembra accorgersi di loro.

Non banalizzo, non alludo a una comparazione del dolore, ma constato con amarezza che viviamo immersi in un flusso capace di orientare le nostre emozioni più di quanto sappia orientare la nostra comprensione. E in questa distorsione rischiamo di perdere non solo il contatto con la realtà, ma anche quello con ciò che accade dentro di noi.

È questo che mi induce a riflettere e a dare il peso che meritano non solo le guerre lontane, ma anche quelle che ci coinvolgono nell’intimità: le vite spezzate dei bambini, le donne soffocate e umiliate da uomini che hanno perso il senno, ma anche uomini ingannati da chi sfrutta tutele nate per proteggere, non per ferire approfittandone.

Non è la quantità del male a preoccuparmi, ma la sua qualità: una crudeltà cieca che dilaga, un po’ nei gesti, un po’ nelle azioni, come se un impoverimento silenzioso avesse infiltrato l’anima collettiva.

Viviamo disorientati, risucchiati da un sistema che ci vuole efficienti, presenti a noi stessi ma distratti dagli altri. Un sistema che ci disabitua alla profondità e ci convince che il dolore sia un errore da correggere o da coprire, mai un segnale da ascoltare. Così continuiamo a correre, a riempire spazi che dovrebbero essere abitati dal silenzio e dalla cura.

In questo orizzonte, la spiritualità è diventata quasi una parola sospetta. In parte perché molti confondono la fede con la sua narrazione istituzionale; in parte perché anche la Chiesa (per chi ha questo riferimento) ha smarrito nel tempo la capacità di guidare e illuminare, lasciando che la sua voce si affievolisse proprio là dove avrebbe dovuto essere più chiara. Ma vale per qualsiasi forma di spiritualità: ciò che dovrebbe custodire l’anima finisce talvolta per allontanarla.

Il risultato è uno smarrimento spirituale diffuso: persone che non sanno più dove cercare, né perché farlo. Pieni di immagini, di notizie, di stimoli, ma poveri di nutrimento interiore.

E mentre tutto questo accade, mentre ci chiediamo quando e se la terza guerra esploderà, non ci accorgiamo che già stiamo vagando tra le macerie di un conflitto che non ha le sembianze di una guerra: non ci sono bombe, ma altri meccanismi capaci di ferire comunque e in profondità. È una guerra che colpisce la coscienza: manipola, anestetizza, divide. È un bombardamento silenzioso che mira a spegnere ciò che abbiamo dentro.

Qualche tempo fa ho ascoltato Albert Gozian parlare di una “fine del mondo” che non arriva come catastrofe, ma come un lento dissolversi di ciò che non regge più: la fine di un modo di vivere che ci ha resi schiavi senza catene, prigionieri del tempo, dell’attenzione, di una spiritualità ridotta a ricordo culturale. Secondo la mia interpretazione del pensiero di Gozian, questo passaggio non distrugge ciò che siamo, ma ciò che ci imprigiona: è il momento in cui l’anima, stanca della superficie, inizia a desiderare profondità.

Uscire dal nostro “Egitto interiore” significa allora smettere di vivere con lo sguardo prestato dagli altri e tornare a guardare con occhi nostri. È in questo movimento, fragile ma reale, che può nascere un mondo nuovo: non nei sistemi, ma nella coscienza; non fuori, ma dentro.

Forse è proprio di questo che abbiamo bisogno oggi: imparare a vedere diversamente. Perché le bombe che esplodono dentro di noi possono essere distruttive quanto e più di quelle che esplodono fuori: capaci di colpire il senso e di spezzare il legame con ciò che siamo.

E se non impariamo ad ascoltare quel fragile movimento interiore che ancora vive in noi, rischiamo di perderci senza accorgercene.

A volte non serve una soluzione immediata. Serve presenza. Presenza a noi stessi, agli altri, alla verità. Quella verità che, anche quando brucia, è l’unica capace di riportarci a casa.