
Lasciare andare.
Sta tutto lì.
O quasi tutto.
Educare se stessi a lasciare andare.
Ogni tanto mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita se avessi compreso e attuato questo processo qualche anno prima. Quanta sofferenza avrei potuto evitare. Quanto spazio, quanto tempo avrei potuto riempire di qualità. Quante individualità incontrate avrebbero trovato da subito una collocazione più idonea al loro modo di essere, al loro modo di condividere spazi, emozioni, sentimenti.
Questo pensiero ha preso forma da una parola incontrata quasi per caso mentre lavoravo a un altro testo. Impermanenza. Un termine poco frequente nel mio linguaggio, almeno fino a quel momento. Proprio per questo ha generato il desiderio di fermarmi, cercare, leggere, provare a comprenderne il significato più profondo e ciò che poteva aprire dentro di me. Quello che segue è frutto di quel movimento.
Ascoltare ciò che arriva da ciò che siamo più in profondità, chiamandolo anima, coscienza o semplicemente presenza. Essere consapevoli che il corpo è ciò che siamo, l’esperienza viva e concreta del nostro essere nel mondo. Attraverso lo specchio possiamo cogliere soltanto la nostra esteriorità, una forma, un’immagine, una superficie. Non ciò che sentiamo, non ciò che attraversiamo, non ciò che ci costituisce davvero. Lo specchio restituisce l’apparenza; il corpo, abitato e vissuto, è il luogo reale dell’esistenza, il mezzo che ci accompagna in questa breve, intensa e straordinaria esperienza che, dopo averci consegnato alla carne, ci restituirà alla polvere.
C’è altro che ho imparato a riconoscere come fondamento del lasciare andare. Nulla è fermo, nulla è definitivo. L’essere non è qualcosa che si conquista una volta per tutte, ma una continua trasformazione. Non siamo, diventiamo. Comprendere che ogni cosa esiste solo per il tempo e nelle condizioni che le sono concesse, e pretendere stabilità da ciò che nasce per trasformarsi, è probabilmente una delle cause più profonde della sofferenza.
Gran parte del dolore prende forma proprio nel tentativo di restare attaccati a ciò che cambia, nell’improbabile desiderio che il temporaneo resti, nel rifiuto di accettare che perdita, mutamento e fine non siano eccezioni, ma parte integrante del cammino. Comprendere e fare propria l’impermanenza non rende le cose meno dolorose, ma certamente le rende più autentiche. Il dolore non scompare, si fa più lieve e interrompe la sua azione distruttrice.
Anche ciò che si muove dentro di noi, pensieri, emozioni, stati d’animo, non è mai definitivo. Ciò che proviamo non ci esaurisce. La ferita non è la nostra identità, l’entusiasmo non è la nostra sostanza. Ogni esperienza ci attraversa senza mai impadronirsi davvero di noi. E in questa consapevolezza, che inizialmente può inquietare, si nasconde una possibilità di libertà. Sapere che si può cambiare, che ciò che oggi condiziona e procura sofferenza non è destinato a durare.
Quando questa consapevolezza si fa più chiara, lo sguardo inevitabilmente si allarga. Non resta confinata a ciò che accade dentro, ma si riflette nel mondo. Diventa allora naturale interrogarsi sulle differenze profonde tra le vite. Su chi attraversa l’esistenza tra abbondanza, leggerezza e protezione e chi invece conosce fin da subito il dolore, la paura, la mancanza. Su perché alcune esistenze abitino il corpo per decenni e altre solo per pochi mesi, poche ore, talvolta per attimi. Domande che forse non cercano risposta, ma che nascono proprio dal riconoscere quanto tutto sia fragile, transitorio, sottratto a ogni logica di controllo.
L’impermanenza inquieta perché nulla garantisce, ma può donare valore a ogni istante proprio perché irripetibile. Se tutto fosse destinato a restare, nulla avrebbe davvero peso. La vita, in fondo, non è qualcosa che possiamo trattenere, ma una grande opportunità da attraversare nel modo migliore possibile.
Meravigliosa opportunità quella che ci viene offerta, poter comprendere. Riconoscersi dentro. E portare così a spasso nella vita il corpo assegnato, con la consapevolezza necessaria.